Quando mi trovo a rendere pubblica un’opinione, e principalmente intorno a un film, una serie o una canzone, mi sento sempre costretto – se non subito, di certo a una determinata altezza del discorso – a dire che mi riferisco sempre alla mia propria persona e che quindi non mi esprimo in termini assolutistici. Parlo di gusti e di sensibilità per convenzione o educazione e dico che potrebbe essere implicito anche quando in realtà è proprio in senso assoluto che parlo, dal momento che il pensiero altrui attorno a un dato argomento non mi interessa nella maggior parte dei casi, dunque trabocca nella dimensione dell’inesistenza. E lo facciamo in molti – non è un vanto, né una colpa, ma un dato come un altro. Sarei anche disposto a rinunciare all’assoluto totalizzante, ma solo in vista di un determinato disallineamento concettuale.
Che poi, spesse volte, la gente si ritrova a storpiare quel pensiero tanto caro a McLuhan – quel the medium is the message – per portarlo altrove. Quel concetto voleva dire che il mezzo stesso trasforma profondamente come percepiamo, pensiamo e ci relazioniamo e molto più del contenuto che esso veicola, non che il lessico materiale del mezzo ne possa giustificare il contenuto!
Altrimenti restiamo intrappolati nei compartimenti stagni: il cinema è quella cosa lì e quello è il modo, così la televisione e il suo linguaggio, il quotidiano cartaceo, quello online e così via. E nella paralisi delle false equivalenze, chi ti risponde “quel film ha incassato due miliardi” pensa davvero di aver annientato il tuo “è robaccia”, come se fossero grandezze commensurabili. Lo sono? Possono esserlo un incasso importante al box office e il vuoto? Un dato Auditel e il senso di imbarazzo? Immersi come siamo nella saturazione dei mezzi digitali, nella confusione dei registri e nella perdita del nesso tra forma e sostanza, consiglio di lasciare andare anche gli ultimi barlumi di senso e incasellamento. (Come se poi non ci fosse una percepibile differenza tra quel che è pop e quel che invece è popolare. Siete falsi. Slegatevi dal mezzo. Un mezzo è un mezzo, il messaggio che vada per conto suo).
È proprio la comparazione più incoerente, aliena e oltremondana a restituirci la misura esatta del mondo. E per questo non posso che essere felice oggi. Oggi sono libero di preferire il Monte Bianco al film Titanic o il fritto misto a qualsiasi poesia scritta dopo il 1979 (così come lo era qualcuno nel preferire l’uva passa a Vivaldi, se vogliamo) allontanandomi da qualsiasi violentissimo “eh ma sono due cose diverse”.
Il motivo della mia felicità è il Rudolf, «un’unità di misura relativa, ovvero ha senso dire che una cosa abbia più Rudolf di un’altra, ma non ha senso parlare di una “Rudolfità” assoluta».
Il funzionamento del dato (così come l’assestamento e la precisione) è in mano alla massa, dunque «all’utente vengono offerte due grandezze ed egli dovrà dire quale delle due, secondo lui, è maggiore. La classifica e l’assegnazione dei Rudolf viene calcolata in base alle risposte. Più input il sistema riceve, più è accurata la classifica».
Degli esempi concreti del meccanismo: è più improbabile vincere alla lotteria o è più importante la salvaguardia delle specie protette? E’ più snervante perdere un treno o è più tagliente una katana? E’ più accattivante una pubblicità in tv o è più altruista un frate?
E se oggi sappiamo che l’elettricità è indispensabile, ma mai quanto è introvabile un ago in un pagliaio che è davvero difficile da trovare, ma non quanto è grandioso l’impero romano o quanto è importante la salute. Se sappiamo che l’imbarazzo di pisciarsi addosso è poca cosa se paragonata alla stranezza di pagare con delle rupie azteche o alla sporcizia dell’acqua del Gange o a quanto sia imbevibile un caffè salato che però è inferiore rispetto a quanto sia vasta la Russia, possiamo dire grazie a Paolo Casarini e alla sua ennesima preziosissima intuizione – tra le più amabili e squisitamente sovversive del nuovo millennio.
Adoro il Rudolf poiché devastante. Perché? Perché smonta l’illusione positivista per cui ogni qualità del mondo sia quantificabile in assoluto. Siamo ossessionati dal misurare, dal trasformare tutto in numeri stabili, oggettivi e isolabili, ma il Rudolf ci dice che esistono qualità che sono intrinsecamente comparative, che non hanno sostanza fuori dalla relazione, che emergono solo nel gesto del confronto.
La misura non preesiste all’atto del misurare, si crea nell’osservazione comparativa. Non c’è un Rudolf che dorme nella cosa in attesa di essere scoperto – il Rudolf accade quando metti due oggetti vicini e decidi di ordinarli, malgrado la loro resistente innaturalezza nell’essere accostati.
La sua volatilità e il suo esser quasi inutilizzabile lo rende indispensabile; fiero emblema del giudizio umano sempre contestuale, sempre situato, sempre tra.
Ora posso dire che Matrix è interessante, ma non quanto sia aspro un limone o estroso un papillon o scorrevole una porta automatica. Il che è già qualcosa.
Il 28 di ottobre il Rudolfometro uscirà in formato app – godetene, mi raccomando.