ANIMOSITÀ D’ALTRI CONFINI

Il nazionalismo, si sa, è in fase di crescita — o di rinnovamento — globale da anni e questo è un rischio sotto vari punti di vista. È un processo culturale ed economico dalla formidabile prestanza e al tempo stesso una radice sempre più comune che resta ben ancorata al terreno del protezionismo, della resistenza passiva e delle tensioni geopolitiche.

Il nazionalismo è il sé che diventa confine, è un principio che rende coincidenti Stato e nazione, ma certamente non è più soltanto ideologia culturale o patriottica, bensì strategia economica di protezione e controllo. È una forma di realpolitik identitaria. L’obiettivo è quello di de-globalizzare e la de-globalizzazione nasce come risposta politica alle paure economiche e culturali. Paure alimentate quel tanto che basta a non mutarle in terrore, rimanendo dunque su parametri incerti e semplificati al massimo in modo da farla diffondere con facilità. I governi (nazionalisti), spinti da agende aggressive, tendono ad aumentare le tensioni per spostare l’attenzione pubblica dai problemi interni a quelli esterni. Il senso è votato al mantenimento in quanto tale. Questo è, lo spazio dedicato al pensiero-futuro è scarso e timidissimo.

Un paper di qualche anno fa, pubblicato sull’International Journal of Physical Distribution & Logistics Management, analizza il sentimento nazionalista e invita a non sottovalutarlo, rapportandolo al settore delle multinazionali. L’obiettivo è quello di fornire degli strumenti (al suo interno ci sono link per raggiungere database e approfondimenti di ogni fattore) per tentare di avere una comprensione via via maggiore e più accurata del nazionalismo e individuare precocemente un vento di crisi. È un invito a riconoscere i Paesi non solo come individui politici e regolamentati, ma come nazioni dotate di identità e storia, analizzandone i media, i testi scolastici, gli squilibri commerciali e quelli che si generano, per esempio, tra le vittime civili di un conflitto e la vita della stessa popolazione nella fase prebellica. – perché è questo insieme che influenza profondamente le strategie delle imprese.

Lo studio contrappone due elementi fondamentali, quello dell’Economic nationalism e quello denominato National animosity. Entrambi esposti come principali cause politiche di rischio per le multinazionali: il primo alimenta protezionismo e populismo (discriminando tutti i soggetti stranieri), il secondo, l’animosità che è residuo di antipatia, ostilità mentale e antagonismo emotivo, si focalizza sulle avversità storiche e mediatiche che sfociano in boicottaggi e interruzioni delle catene di approvvigionamento (discriminando solo alcuni soggetti in base alla storia politica).

«Il nazionalismo aspira a proteggere la nazione dalle influenze straniere e diventa così un motore delle crisi geopolitiche». La storia più vecchia del mondo. Porta consensi, protegge interessi di certo, ma niente di più probabilmente se andiamo al sodo. Questo studio però riporta all’attenzione un fattore importante: pur in un mondo globalizzato, la nazionalità resta centrale. E allora la domanda: le multinazionali una nazionalità ce l’hanno?

Ogni multinazionale — chiaramente — nasce in un Paese d’origine che ne definisce il diritto societario, la cultura organizzativa e spesso la strategia. Anche quando si sviluppa all’estero, l’azienda resta segnata da quella matrice (governance, management, rapporti con il governo). Anche se teorici del calibro di Reich sostenevano che le multinazionali fossero ormai «globali e apolidi», il legame nazionale innegabilmente persiste: circa il 75% del valore aggiunto di una multinazionale deriva ancora dalla casa madre, e le politiche industriali o le crisi geopolitiche continuano a richiamare l’azienda alla sua identità di partenza e anche quando le stesse appaiano born global non va sottovalutato il campo simbolico e la carsica volontà di sviluppare, all’occasione, un “noi contro loro” spesso determinante.

C’è da chiedersi forse se la globalizzazione abbia davvero permesso di mantenere un sentimento nazionale di partenza mutandolo di contesto in contesto, nel mondo, in modo intelligente e costruttivo in termini di ampliamento culturale. Questo me lo chiedo in relazione a un’altra ricerca — ne ho parlato in modo più approfondito qualche mese fa in Chi scrive le storie d’Europa per Prismag — che prende in analisi il modello Netflix per quanto riguarda il Vecchio Continente. Da quell’indagine emerge un tentativo di rimodellare le nostre modalità imponendo una grammatica narrativa americana. In un’Europa tentennante (e forse impreparata) le produzioni vengono “ibridate” per l’esportazione globale, sacrificando autenticità e complessità narrativa. Abbiamo risposto solo con quote regolamentari, senza immaginare un’alternativa culturale propria, rischiando un progressivo appiattimento.

Un legame costruttivo che non sia prevaricante, ma equilibrato dovrebbe essere l’estensione finale. Mi rendo conto che in un sistema in cui tutto è frenetico e mediato da un centinaio di termini per avere il consenso di chi usa un centinaio di termini e in un presente in cui risulta meno che mai possibile superare le dualità terrene e in cui ci si basa sull’impressione immediata e sul superspot, non c’è spazio per le sottigliezze e per il mutamento graduale e profondo. Ma al di là del fuoco populista viene quasi da chiedersi: cos’è che dobbiamo proteggere? Il nostro patrimonio è così minacciato e fragile? E a dirla tutta, il patrimonio è così importante, così prezioso? E se la perdita portasse a un patrimonio rinnovato e luminoso?

La globalizzazione non è più neutra, ma un campo di tensione tra Stati, identità e interessi. La gestione delle catene di approvvigionamento non può più essere solo logistica: deve diventare ancor più politica e culturale. E allora, pur tenendo a mente ogni potenziale corruzione del processo di globalizzazione è bene ricordare quanto il nazionalismo non sia un fenomeno ideologico astratto, ma una forza concreta che distorce e interrompe il funzionamento economico globale, da comprendere meglio per prevedere, valutare e rispondere ai fattori che minacciano la stabilità dell’insieme.
Don’t try this at home.

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