MITOLOGIA DI UNA CADUTA

Nel Ring di Wagner, del 1876, c’è il gesto più tipico delle epoche incerte: il ritorno al mito. Ogni volta che una civiltà vacilla — che sia la polis greca sorpresa dal disincanto, la Germania alla ricerca di un volto o l’Europa odierna che non sa più raccontarsi — l’immaginario corre all’indietro. Si cercano radici, riti, origini, qualcosa che preceda l’instabilità del presente e prometta una forma di protezione. Wagner lo sapeva bene: il suo Bühnenfestspiel (sagra scenica) non era un’opera, ma una liturgia laica per un popolo spaesato.

I miti non nascono per nostalgia, ma per volontà di potenza, per desiderio di tonificare le identità (a maggior ragione se ferite, come per la Germania della Gründerkrise). Per questo Wagner scelse quelle «leggende di tradizione primigenia su cui aleggia una sublimità selvaggiamente audace, capace di fortificare la coscienza patriottica tedesca».

Il mito è un dispositivo di orientamento: un asse invisibile che restituisce una forma. Ogni mito istituisce un’origine e, insieme, un dovere: indica ciò che merita di essere ricordato e ciò che deve essere temuto. È un gesto di semplificazione radicale, una geometria dello spirito che protegge dall’irruzione del caso. Per questo ritorna nelle crisi: perché solo un’origine inventata sembra in grado di mettere ordine nell’indistinto. È nell’atto di consolazione che avviene il governo.

Del Ring ne parla per bene Adele Boghetich nell’ultimo numero di Musica (372, Zecchini Editore). Il suo scritto illumina la natura profondamente rituale dell’operazione wagneriana. «Il Bühnenfestspiel già nel nome accoglie significati artistici complessi, dall’idea greca dei giochi alla moderna concezione di un’opera d’Arte totale, fusione di musica e azione drammatica per un Teatro nazionale che canta il tenebroso mito nordico». Non è un caso che Wagner abbia costruito Bayreuth come un tempio, una «piccola Mecca di provincia» dove il pubblico era chiamato al raccoglimento, per vivere appieno ogni suggestione offerta dal mito nordico.

Ma proprio qui emerge il paradosso, se vogliamo chiamarlo così. Nietzsche — inizialmente entusiasta sostenitore di Wagner — fu il primo a cogliere la natura profondamente religiosa, e quindi problematica, dell’operazione. Dopo l’inaugurazione del Ring cominciò a nutrire diffidenza. A Sorrento, mentre Wagner meditava il Parsifal, il filosofo intuì che il maestro stava costruendo un’etica della rinuncia, una «pietas prostrata davanti all’altare», incompatibile con l’eroismo e lo spirito dionisiaco. La critica nietzschiana è feroce: Wagner è un «romantico marcio e disperato che si prostra ai piedi della croce cristiana». Eppure, proprio questa violenza critica rivela quanto fosse potente il dispositivo wagneriano: non era arte, era culto. Non teatro, ma rito.

Forse le epoche esauste non producono nuovi orizzonti: ne riciclano di antichi. Il mito diventa un’energia di riserva, un generatore d’emergenza che restituisce simboli dove la politica fallisce. Forse il mito è un’invenzione del futuro, non un reperto del passato. Il mito non è spirituale, ma (forse) tecnologico nel senso più puro. Trasforma un’emozione privata in un sentimento collettivo, fabbrica appartenenza. La cultura lo vende come profondità; in realtà è una straordinaria macchina di semplificazione psichica. Le sue immagini durano perché risparmiano pensiero e amplificano il senso.

Nell’insofferenza di Nietzsche verso Parsifal, poi, trovo una diagnosi molto lucida: il mito, se usato come analgesico morale, infiacchisce la volontà. L’arte deve scuotere, non guarire. È qui che l’Europa si biforca: Wagner vuole un popolo consolato; Nietzsche una comunità capace di sopportare la verità senza rifugiarsi nel sacro.

Ogni civiltà produce il proprio mito terminale: l’ultimo recinto prima di un salto o di una fine. Wagner offrì alla Germania un’origine; Nietzsche le ricordò che anche le origini sono invenzioni. Noi viviamo nello stesso bivio: tra il conforto delle narrazioni che ci rassicurano e l’esercizio di guardare il presente senza cercare un appiglio nel sacro. Da questa scelta dipende ciò che diventeremo. Ma non è detto che questo non possa essere un’occasione.

Ciò che accomuna l’età ellenistica, il Romanticismo wagneriano e la nostra epoca è il ritorno al primitivo in senso alto. Non si tratta di regredire alla barbarie, ma di cercare forme archetipiche capaci di dare ordine al caos. I culti misterici ellenistici non erano superstizione rozza: erano pratiche sofisticate di iniziazione che promettevano un compimento dell’individuo. Wagner non creava folklore: costruiva una teologia estetica. E oggi, quando trattiamo l’AI come profetico, non stiamo semplicemente usando uno strumento: stiamo cercando rivelazione.

Il pattern è sempre lo stesso. Non è cambiato nulla in duemila anni, se non il modo di vestire. La struttura profonda rimane identica: di fronte all’incertezza, cerchiamo un’origine mitica che ci protegga dal caso. Ma il mito non è mai innocente: istituisce un’origine, certo, ma insieme istituisce un dovere. Indica ciò che merita di essere ricordato e ciò che deve essere temuto. È una geometria dello spirito che semplifica, mi ripeto, radicalmente la complessità del reale.

Non è un caso che oggi, nell’epoca del grande disorientamento, il mito torni ovunque: nelle serie tv che riscrivono (in continuazione) archetipi; nei brand che promettono identità e nelle politiche che vendono radici. Ma è un mito senza Dioniso… un po’ di consolazione, senza ebbrezza. Wagner ha vinto: abbiamo imparato a prostrarci con eleganza. E Nietzsche, che desiderava tanto scuoterci, è diventato una citazione del mercoledì mattina.

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