Un paio di anni fa Juan Carlos De Martin, Professore del Politecnico di Torino e direttore del Centro Nexa su Internet e Società, ha dedicato le proprie energie intellettuali alla scrittura di un libro insieme accessibile e meticoloso, concepito per esaminare analiticamente quello strumento necessario che è lo smartphone, tanto nella sua materialità quanto nelle implicazioni etiche che solleva.
Un’indagine sommaria eppure scrupolosa, volta a preservare la consapevolezza di quei tratti distintivi che rischiano di essere relegati nell’ombra o rimossi dalla coscienza collettiva. Ciò avviene poiché la tecnologia tende a essere assimilata e impiegata senza interrogazioni critiche, data per scontata in virtù di una presunta familiarità condivisa.
Si parte dal principio. Uno smartphone è composto per il 40 per cento da metalli, per il 40 per cento da plastica per il 20 per cento da ceramica e altri materiali. Di 83 elementi stabili della Tavola periodica, almeno 70 sono presenti in uno smartphone. Un dato interessante: «Nel 2013, alcuni studiosi della Yale University hanno esaminato i sessantadue metalli e metalloidi all’interno degli smartphone e hanno valutato possibili sostituti: nessun sostituto è stato classificato “altrettanto buono” e per dodici metalli non è stata individuata alcuna alternativa». Il rispetto dell’ambiente parrebbe un obiettivo decisamente utopistico.
E poi «Lo smartphone è stato progettato per essere una macchina che le persone comprano, così come si compra una bicicletta, ma di cui — a differenza di una bicicletta — non possono diventare realmente padroni. Chi compra la macchina smartphone non solo compra una macchina su cui può intervenire in maniera rigidamente controllata dall’esterno, ma compra anche una macchina appositamente progettata per catturare in maniera silenziosa quanti più dati possibili riguardanti l’utente e l’ambiente in cui si trova».
I dati che vengono silenziosamente e costantemente raccolti (si stima che la comunicazione tra il dispositivo e la casa madre si attivi ogni 4 minuti) costituiscono un tema onnipresente nel discorso collettivo, senza che mai se ne colga appieno la dimensione effettiva. Parliamo di localizzazione certo, ma anche del calendario, della fotocamera, del microfono, dei dettagli tecnici come il numero di serie, la versione del sistema operativo e le informazioni sulla batteria, dell’accelerometro, del giroscopio, del sensore di luce ambientale, del sensore di prossimità, delle informazioni sulle reti Wi-Fi, dei dati delle app e del loro utilizzo, delle credenziali di accesso e dei token.
Un altro aspetto cruciale, da non perdere di vista, risiede nell’intuizione iniziale, il pensiero che ha animato il progetto di ibridazione tra telefono e personal computer: essa ha di fatto offerto l’opportunità — prontamente colta — di sovvertire il paradigma esistente fin lì. In precedenza, la possibilità di intervenire sulla macchina era concreta. Il personal computer — che l’autore definisce con felice sintesi macchina anarco-individualista figlia degli anni Settanta — garantiva all’utente un controllo totale, reso possibile dalla decisione di IBM di divulgare le specifiche tecniche dei propri elaboratori. Era invece il telefono a vincolare l’utente all’utilizzo esclusivo dei servizi predisposti e alle modalità prescritte, mediante dispositivi forniti dall’operatore stesso. Con l’avvento dello smartphone — l’iPhone del 2007 — si materializzò invece la possibilità di comprimere drasticamente tre ordini di libertà distinti: quella di manipolare l’hardware, quella di sostituire il sistema operativo e, da ultimo, quella di installare applicazioni senza restrizioni imposte.
«Chi controlla lo smartphone l’ha progettato per creare più dipendenza possibile». E questo perché «non era sufficiente che lo smartphone fosse solo straordinariamente utile in molti contesti: doveva attirare in modo irresistibile, anche al di là dell’utilità».
E mentre progrediamo, ecco che questo strumento miracoloso si fa via via indispensabile per un ventaglio sempre più ampio di pratiche che, fino a poco tempo addietro, conservavano una piena autonomia — dall’effettuare pagamenti alla certificazione dell’identità.
Questa consapevolezza non deve tuttavia indurre allo sconforto, né tale è l’intenzione che anima il volume. Nelle pagine conclusive, il Professore ha delineato una serie di indicazioni volte a promuovere un progresso tecnico-etico della questione, prospettando le coordinate di uno smartphone diverso per il futuro — forse attingendo proprio a quel passato glorioso, pirata e pionieristico che caratterizzò gli albori di Internet. Riporto di seguito alcuni tra i passaggi più interessanti.
«Lo smartphone — sia hardware, sia software — deve essere progettato per massimizzare la vita media dell’oggetto stesso, al fine di ridurre l’impatto ambientale complessivo».
«La batteria deve essere facilmente rimovibile».
«Il sistema operativo deve garantire la possibilità di trasmettere dati da dispositivo a dispositivo e in generale la decentralizzazione delle comunicazioni, al fine di limitare la concentrazione dei dati nella mani di pochissime grandi imprese».
«Tutti i sistemi operativi devono ridurre al minimo le possibilità concesse alle app (incluse le app dei produttori di sistemi operativi) di sorvegliare l’utente».
«Le app che mettono in contatto utenti tra di loro (per esempio, WhatsApp), oltre a garantire flussi crittografati, devono anche non memorizzare i cosiddetti metadati delle comunicazioni (ovvero, chi ha interagito con chi e quando)».
«I produttori di sistemi operativi e delle app devono fornire pieno accesso ai propri dati e ai propri algoritmi per permettere ai ricercatori indipendenti di studiare sia le conseguenze dello smartphone, sia il rispetto dei principi di cui sopra».
Resta da chiedersi se queste indicazioni possano davvero tradursi in realtà, o se il modello economico che alimenta l’industria tecnologica contemporanea sia ormai irreversibile. Forse la scommessa risiede altrove: non tanto nel prefigurare uno smartphone impossibile, quanto nel recuperare quella consapevolezza critica che precede ogni forma autentica di libertà. Il primo gesto di emancipazione, del resto, è sempre il riconoscimento della propria condizione.