NELLA VERDE TERRA DI DIO

Negli Stati Uniti del secondo mandato di Trump, Hollywood modifica il proprio vocabolario: meno inclusione, più fede. Ma il nuovo corso spirituale dell’industria sembra avere radici molto terrene.

Qualcosa è cambiato nei palazzi secolari delle grandi major cinematografiche. Non si tratta solo di casting o marketing, bensì di tono e autocontrollo. Registi, sceneggiatori e showrunner raccontano un clima sottile, ma pervasivo: meno voglia di provocare, una crescente paura di sbagliare. Lo documentano due recenti articoli del Wall Street Journal e di Business Insider: negli uffici di Hollywood si evitano temi queer, giustizia sociale, identità fluide. Le note dei produttori diventano caute, i personaggi subiscono ritocchi, alcune trame vengono del tutto cassate. Non chiamatela censura: cautela, piuttosto.

«Per la prima volta nella mia carriera ho dovuto davvero pensare a chi ci fosse alla Casa Bianca prima di scrivere un personaggio» ha dichiarato Zoe Marshall, sceneggiatrice e produttrice della CBS. Non è sola: lo stesso vale per chi si occupa di casting, per gli avvocati che negoziano i contratti e per le piattaforme, oggi sempre più attente a non urtare il sentimento conservatore. Una nuova grammatica si è imposta nei contenuti: meno ideologia, più adesione a una normalità rassicurante.

La trasformazione è in atto da tempo, ma oggi ha subito un’accelerazione evidente. Se durante la prima amministrazione Trump si era assistito a un’esplosione di fiction politicamente militanti e apertamente ostili, oggi la tendenza si inverte. Come ha sintetizzato un avvocato di settore, «la parola d’ordine ora è: cerchiamo qualcosa che abbia un richiamo più ampio». In altre parole: meno polarizzazione, più largo consumo. Le grandi compagnie stanno tagliando le proprie divisioni DEI (Diversity, Equity & Inclusion). Il presidente della Federal Communications Commission ha chiesto di indagare su NBCUniversal e YouTubeTV per presunte discriminazioni nei confronti di canali religiosi. Intanto, Disney baricentro simbolico delle battaglie culturali ha cancellato una storyline transgender dalla serie animata Win or Lose, spiegando che «molti genitori preferirebbero discutere di certi argomenti con i propri figli secondo i propri tempi»

Il pubblico cui si guarda non è più solo quello costiero, progressista e urbano. È quello degli Stati rossi, il cuore conservatore del Paese. Per qualcuno è un ritorno all’ordine, per altri una deriva conformista. Per l’industria, una questione di sopravvivenza.

Il pubblico tradizionalista spesso trascurato dalle narrazioni progressiste degli ultimi anni rappresenta un bacino economico e simbolico tutt’altro che secondario. I dati lo confermano: secondo Faith Driven Consumer, 41 milioni di americani orientano le proprie scelte culturali sulla base dei propri valori religiosi e muovono un potere d’acquisto stimato intorno a 2 trilioni di dollari annui. Piattaforme come Pure Flix ora Great American Pure Flix, dopo l’acquisizione da parte di Sony Pictures per 100 milioni di dollari e la fusione con Great American Media offrono film, serie e documentari di chiara impronta cristiana, spesso costruiti per rafforzare valori patriottici e spirituali. Film come God’s Not Dead hanno incassato decine di milioni di dollari a fronte di un budget irrisorio. Affirm Films (divisione religiosa di Sony) è ormai un marchio consolidato. E persino Netflix e Amazon, secondo quanto riportato da Business Insider, hanno avviato collaborazioni per contenuti analoghi.

Il motivo è semplice: costano poco, offendono pochi e piacciono a molti. Il sogno di ogni investitore. Una messa in scena chiara in un periodo storico di grande complessità. Ma cosa resta della narrazione?

A illuminare questa tendenza arriva anche uno studio accademico pubblicato nel 2024 su Frontiers in Public Health. Il team dell’Università di Washington ha analizzato 25 film religiosi tramite il riconoscimento facciale (YOLOv5), tracciando le emozioni espresse nei volti dei personaggi in oltre duemila film d’altro genere. I film religiosi, rispetto al campione generalista, mostrano curve emotive più sobrie, ma coerenti, che si articolano in tre fasi ricorrenti: colpa, prova, trasformazione spirituale. Partono da un livello emotivo basso (smarrimento), attraversano tensioni moderate (sfide, sacrificio) e culminano in un picco positivo (redenzione). Una struttura rassicurante e rituale. Lo studio definisce questi film «spazi sicuri per la riflessione», capaci di creare una connessione profonda con lo spettatore.

In questa standardizzazione si riscontra un vantaggio commerciale e al tempo stesso una rinuncia poetica. Se tutto deve concludersi con l’illuminazione, dove finisce il dubbio? Se la fede è sempre la risposta, che ne è della complessità narrativa? Il nuovo corso spirituale dell’industria audiovisiva americana risponde a un cambiamento profondo dell’immaginario collettivo, alimentato da instabilità politica, disincanto economico, sfiducia sociale. L’America di Trump chiede riconoscimento, ma c’è una soglia da non oltrepassare: quella tra narrazione condivisa e catechismo spettacolarizzato. Se i contenuti religiosi conquistano spazio perché autentici, dialogici, complessi, allora ben vengano. Se invece diventano l’equivalente audiovisivo di una parabola edificante, il rischio è di sostituire l’arte con il conforto. In questa nuova stagione dell’immaginario, la spiritualità rischia di essere non una vetta da scalare, ma una formula da replicare a oltranza. È utile tenere a mente che redenzione non è sinonimo di riduzione. Ammesso e non concesso che la spiritualità possa ancora avere un ruolo nell’estetica audiovisiva, esso dovrebbe consistere nel riaprire la ferita del senso, non nel cicatrizzarla con buoni sentimenti. Perché il sacro non illumina: brucia.

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