Alla fine dell’anno, tirando le fila tra visioni opache e fuochi fatui, mi accorgo che un solo film ha lasciato traccia: Grand Theft Hamlet, di Sam Crane e Pinny Grylls.
Intrigante convergenza tra i picchi più alti e più bassi della cultura popolare: la tragedia elisabettiana per eccellenza, Amleto, ma inserito nel tessuto anarchico del videogioco Grand Theft Auto Online. Questo film-documentario segue le giornate, in piena pandemia, di due attori e compagni di gaming che passano il tempo su GTA. Esplorando la mappa, si ritrovano in un’arena con un palco e hanno un’idea folle: mettere in scena Amleto all’interno. Decidono così di reclutare volontari tra altri giocatori, trasformando il caos digitale in una farsa improvvisata. Un’operazione tanto azzardata quanto entusiasmante: lasciare che l’universo caotico di un open world virtuale riscriva il destino del principe di Danimarca.
La regia imprevedibile non è solo un motore narrativo, ma una condizione scenica: il lag che scompone i movimenti diventa straniamento, i bug che deformano i corpi virtuali evocano l’instabilità dell’identità, mentre ogni imprevisto, dal passante armato di lanciafiamme al veicolo fuori controllo, amplifica il senso di un’opera che porta alla perdita di dominio sulla narrazione trasformando il film in un’esplorazione continua.
Grand Theft Hamlet è un’astuzia postmoderna, è il teatro che si piega alla tecnologia sfruttandone le regole per creare una poetica dell’involontario. Emblema dell’ambizione, dell’ironia e della catastrofe, un’opera irriverente e visionaria, un nuovo codice per una tragedia senza tempo, reinventata negli spazi più impensabili.
Quel che avviene di realmente interessante – almeno per me – è che accettando la dissoluzione della scena si riconsegna allo spettatore il compito antico e sovversivo di ascoltare e di seguire. In questo vuoto strutturale la rappresentazione non si fonda più sulla presenza, ma su un’assenza operativa: un fantasma — Amleto stesso forse — che continua a insistere, nonostante (o proprio a causa di) l’impossibilità della sua incarnazione. Parlare di supporto fantasmatico della rappresentazione implica un rovesciamento: non è più la rappresentazione a contenere l’immaginario, ma è il fantasma — ciò che non è, ciò che manca, ciò che non può mai completamente venir fuori — a sostenere e a rendere possibile l’atto stesso del rappresentare. Il teatro (e il cinema che ne assume la grammatica profonda) si forma meno, in realtà, su ciò che appare quanto più su ciò che si allude, si proietta e si rimanda.
Grand Theft Hamlet è una forma impura di cinema e il vuoto strutturale che costituisce la narrazione è forse l’elemento decisivo per farmi adorare il film.
Il supporto fantasmatico, allora, è duplice: è sia ciò che motiva il desiderio di rappresentare (il lutto, la mancanza, l’impossibile restituzione), sia ciò che sostiene materialmente la forma rappresentativa nella sua transitorietà. Come nell’iconologia barocca, ciò che vediamo è un velo, un sipario che allude a un fuori scena inaggirabile. Il fantasma è lo scenario immaginario che consente al soggetto di strutturarsi in relazione al desiderio. E allora, cosa fa Grand Theft Hamlet se non costruire un dispositivo in cui il desiderio — impossibile — di “fare teatro” viene appoggiato a uno scenario incongruo, distopico e grottesco? Il teatro non si dà, ma si desidera. Dunque, riconosciamo che ogni rappresentazione poggia su un’impalcatura invisibile: non tanto un significato nascosto, quanto un mancamento che struttura la visione. Nel caso di Grand Theft Hamlet il teatro è assente, ma è proprio questa assenza a riattivare il desiderio di teatro. È il fantasma della scena — perduta, inagibile, svanita nel trauma pandemico — a rendere possibile la recita.
E questo desiderio ha bisogno di una superficie su cui proiettarsi. Il videogioco, in questo senso, non è solo contesto ma schermo fantasmatico: accoglie, distorce, restituisce in forma di parodia ciò che in origine era pathos, rendendo visibile la distanza tra rappresentazione e verità. E allora la domanda diventa: può la rappresentazione sopravvivere quando il suo supporto non è più reale, ma unicamente immaginario? O è proprio in questa condizione, così radicalmente spettrale, che essa tocca oggi la sua verità più profonda?
Buon anno.