SENATORE, NOI PUBBLICHIAMO ANNUNCI

Nel 2018 Mark Zuckerberg fu chiamato a testimoniare davanti al Congresso degli Stati Uniti in seguito allo scandalo Cambridge Analytica (i dati personali di milioni di utenti furono usati impropriamente per influenzare elezioni e referendum – tra cui Brexit e presidenziali USA 2016). Alla domanda del repubblicano Orrin Hatch su come Facebook generasse profitto, il CEO di Meta rispose con disarmante chiarezza: «Senator, we run ads». Questa risposta semplicistica e sorniona rivela qualcosa di fondamentale: gli algoritmi dei social media non sono neutri, ma sono progettati per massimizzare il tempo da passare sulla piattaforma e raccogliere il maggior numero di dati sull’utente per poter mostrare pubblicità mirata e naturalmente generare profitto. Quindi il modo in cui vengono collocate le notizie e le informazioni non è basato su cosa sia importante per la democrazia o per il dibattito pubblico, ma su cosa generi più clic.

Questo rovescia radicalmente l’idea tradizionale di opinione pubblica. Il concetto ha subìto ripetute riconfigurazioni teoriche nel corso dei secoli, mantenendo una sostanziale irriducibilità a una definizione univoca. In principio, a ogni modo, avevamo perlomeno il presupposto che esistesse uno spazio condiviso dove le opinioni potessero incontrarsi, scontrarsi ed evolvere. Quel presupposto oggi vacilla. Non perché manchi lo spazio, ma perché ognuno di noi abita una porzione diversa, costruita su misura dagli algoritmi.

Il professor Slavko Splichal, quasi a volersi arrendere, ne ha scritto in questi termini qualche anno fa: «che sia visto come strumento di resistenza o controllo, come aggregazione di reazioni individuali a questioni salienti, o come prodotto di sforzi collettivi, la sua natura è contestata e plasmata dai cambiamenti sociali, politici e tecnologici in corso». E di opinione pubblica si è occupato la scorsa settimana anche Paolo Pagliaro, definendola «sempre meno pubblica e sempre più privata, dunque sempre meno tracciabile» e concludendo con quanto «le tecnologie che dovevano connettere il mondo ci abbiano invece isolato in bolle sempre più piccole e impermeabili».

In questo contesto un recente studio pubblicato sulla rivista Dialogues on Digital Society da un gruppo di ricercatori dell’università di Milano, della Normale di Pisa e dell’European University Institute di Firenze propone un concetto interessante per ridefinire il modo in cui pensiamo l’opinione pubblica, battezzato algorithmic public opinion. In breve, è un processo plasmato dallo scambio dinamico tra utenti e sistemi algoritmici, e un prodotto che riflette, va da sé, l’interazione tra mediazione tecnologica e agency (o autonomia decisionale) dell’utente.

Questo paper pone due domande essenziali: i social media e i loro sistemi come modellano lo sviluppo delle opinioni elaborate e condivise tra cittadini negli spazi digitali? E come si materializza l’opinione pubblica all’interno di questo ecosistema?

Ne viene restituito un percorso che muta l’oggetto preso in esame da fenomeno collettivo tracciabile a forma frammentata e manipolabile nell’era digitale; quello in cui viviamo è un presente in cui gli individui diventano utenti – non passivi, intendiamoci, ma che interagiscono con gli algoritmi senza comprenderli del tutto.

Quando l’esperienza non è personale, bensì personalizzata (dunque impersonale), il valore informativo è misero e caotico, mentre l’engagement resta l’unico sacro obiettivo. Il risultato è un vasto pubblico «iper-eterogeneo e non generalizzabile», dove ognuno vive in una bolla di esposizione differente, il che porta a una polarizzazione affettiva: rafforzando sì l’identità di gruppo, ma aumentando il conflitto emotivo con l’altro. La logica algoritmica, poi, privilegia ciò che genera reazioni forti (novità, conflitto, popolarità), riducendo la portata di quel che è variegato e profondo. L’opinione pubblica diventa quindi più malleabile, perché costruita su metriche di mercato e non sul bene comune. Il tutto nella cornice di ciò che la sociologa Shoshana Zuboff chiama surveillance capitalism: le opinioni non sono soltanto espressioni, ma dati da monetizzare. Il processo era in atto ben prima dell’avvento dei social, certo, ma negli ultimi decenni si è intensificato con una forza inedita.

I sistemi mediatici nel ventunesimo secolo sono diventati ibridi, è un fatto. Questo riflette un processo di «simultanea integrazione e frammentazione», per cui i media più vecchi si sono fusi con i formati, i generi, le norme e gli attori portati dai media digitali. Questo comporta l’annullamento di quella netta separazione che si aveva con i media tradizionali. Il ruolo di selezione delle notizie – un tempo dei giornalisti – è ora nelle mani degli algoritmi delle piattaforme in un circolo vizioso di feedback continuo. Le opinioni si formano in uno spazio dove contenuti e interazioni sono costantemente mediati da sistemi automatizzati.

E un processo per molti versi simile è analogo – mi viene da pensare – anche al cambiamento strutturale della digitalizzazione di un suono.

Mi dilungo ancora, giusto per restituire una visualizzazione più chiara. Il suono è un flusso continuo e come tale viene registrato e riprodotto in analogico. L’onda sonora è catturata come nel mondo reale, tramite un processo continuo che segue la natura della sua forma. Per memorizzarlo digitalmente, invece, il suono deve essere campionato e quantizzato. L’onda va frammentata in porzioni temporali, istanti specifici nel tempo, misurati e trasformati in dati numerici (i campioni, per l’appunto). Anche se queste porzioni sono molto vicine tra loro, il suono è tecnicamente interrotto tra un campione e l’altro. La quantizzazione, poi, per farla breve, è un processo di arrotondamento (che introduce, per forza di cose, una leggera differenza e degradazione del suono originale) per trasformare qualcosa di continuo in una serie di unità discrete che permette al computer di gestirle.

E questo spiega – a grandi linee – quella mancanza di calore e corporeità che infiamma chi preferisce l’analogico al digitale – una differenza impalpabile che è niente, per carità, ma il fatto che non sia udibile non significa che non si avverta.

Allo stesso modo l’opinione pubblica, frammentata dagli algoritmi, mantiene un’apparenza di continuità – vediamo ancora opinioni, dibattiti, discussioni – dove la sostanza si è spezzettata in campioni discreti, arrotondati secondo logiche che, di certo, non controlliamo.

L’innovazione porta cambiamenti necessari, spesso e volentieri complessi da capire o visualizzare nitidamente sul momento, così da rendere chiunque consapevole solo a posteriori, nella migliore delle ipotesi. E questo non perché ci sia dietro una volontà sinistra di un’oscura congregazione, ma semplicemente perché progredire genera prima di tutto entusiasmo e le emozioni – nel periodo iniziale – hanno per natura la meglio sulla ragione. Il progresso tecnologico parrebbe inesorabilmente aumentare l’efficienza a scapito di una perdita progressiva di calore (e non potrebbe essere altrimenti, in soldoni, se si decide che l’alluminio debba sostituire, dove possibile, la carne). Non è detto che sia necessariamente un male – al di là di una visione romantica e nostalgica di fondo – ma resta un dato abbastanza corposo e da tenere a mente.

La perdita è sottile, ma reale e costante.
Staremo a vedere.

2 pensieri riguardo “SENATORE, NOI PUBBLICHIAMO ANNUNCI”

  1. Gentile Veterocontinentale,

    Grazie per la riflessione: è davvero interessante e mette a fuoco una questione concreta e rilevante delle nostre società digitali. Condivido l’impianto sul ruolo pervasivo degli algoritmi nel rimodellare lo spazio dell’opinione pubblica.

    Mi consenta però un dissenso sul parallelismo con il passaggio dalla musica analogica al digitale. La frammentazione che osserviamo oggi non deriva tanto dalla “digitalizzazione” in sé (che, in ambito musicale, ha anzi ampliato accesso e varietà), quanto dalla logica algoritmica che governa distribuzione, raccomandazioni e ranking. È lì che si chiudono le echo chambers: nei sistemi che ottimizzano per tempo di permanenza e probabilità di clic, non nel fatto che un segnale sia campionato invece che continuo.

    Per il focus del suo articoli, l’analogia più calzante non è dunque tra analogico e digitale, ma tra spazi informativi e motori di raccomandazione: feed personalizzati, filtri collaborativi, autoplay e playlist generate riducono la serendipità sia nel dibattito pubblico sia nei gusti musicali, restringendo progressivamente l’orizzonte di esposizione. La “perdita di calore” non è un artefatto tecnico dell’audio digitale: è un effetto economico-algoritmico di piattaforme che selezionano ciò che massimizza engagement, a scapito del variegato e del profondo.

    Detto questo, il contributo è prezioso e stimolante. Proprio perché centra il cuore del problema, varrebbe – a mio avviso – rafforzarlo esplicitando che è l’algoritmo (e i suoi obiettivi) il vero dispositivo di frammentazione.

    Grazie,

    Cav. Brodo Brodini

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    1. Gentile Lettore,

      La ringrazio per l’obiezione puntuale: mi permette di chiarire un punto che forse nell’articolo non ho reso abbastanza esplicito.

      Il parallelismo con l’audio digitale non vuole suggerire un nesso causale diretto, ma funzionare come figura, come metafora di un cambiamento strutturale: così come la digitalizzazione del suono introduce una trasformazione nel modo in cui un fenomeno continuo viene rappresentato (campionamento, quantizzazione), allo stesso modo gli algoritmi operano un mutamento osseo dell’opinione pubblica – la frammentano, la misurano, la arrotondano secondo logiche proprie.

      Non è un’equivalenza tecnica, ma un’analogia fenomenologica. In entrambi i casi, qualcosa di fluido e vivo viene processato, reso gestibile, e nel cammino perde una quota sottile, ma percepibile. È come per la cara faccenda delle case infestate da fantasmi: i vecchi edifici emettono frequenze così basse da non esser percepite a livello conscio (-20 Hz) generando un sovraccarico sensoriale che non trova una spiegazione completa, inducendo uno stato di angoscia e paura. Allo stesso modo, la frammentazione algoritmica agisce sotto la soglia della piena consapevolezza, lasciandoci intuire che qualcosa sia accaduto, anche se non lo sappiamo incasellare con certezza sul momento.

      Detto questo, ha ragione: l’approfondimento che suggerisce avrebbe rafforzato il passaggio.
      Mille grazie per lo stimolo.

      Veterocontinetale

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